Onorevoli Colleghi! - Tra circa due settimane l'elettorato italiano sarà chiamato a respingere o ad approvare la radicale riforma costituzionale deliberata con i soli voti della maggioranza parlamentare al termine della XIV legislatura. È stato così ripetuto l'errore già commesso nella precedente legislatura, quando l'esigua maggioranza dell'epoca, di centro-sinistra, deliberò, benché in modo più circoscritto, sulla revisione del titolo V della parte seconda della Costituzione.
      Ambedue le riforme sono state, dunque, realizzate senza ampia e generale condivisione. È venuto così a mancare quel requisito essenziale del coinvolgimento e della redazione concorde del testo che consente alla stragrande maggioranza dei cittadini di riconoscersi poi nella Carta costituzionale.
      Il lungimirante metodo della Costituente, che dette vita alla Costituzione vigente, è stato, dunque, abbandonato, con esiti laceranti e disastrosi. Quale che sia l'esito del prossimo referendum, si può comunque prevedere che la riforma attuata nella XIV legislatura, che ha incontrato la ragionata e ferma opposizione del centro-sinistra e le serrate critiche dei più eminenti costituzionalisti italiani, non potrà mai diventare ciò che per oltre mezzo secolo ha rappresentato la nostra attuale Costituzione. Sarà comunque necessario, quindi, porvi rimedio.
      Uno dei gravi limiti delle precedenti riforme è stata l'assenza di ogni dibattito pubblico che coinvolgesse l'elettorato, pur trattandosi di questioni che investono direttamente tutti i cittadini italiani.
      In realtà, l'acritica insistenza sull'esigenza di riformare ha finito per indebolire il sentimento costituzionale, che pure si era consolidato nella psicologia popolare, insinuando l'idea di una Costituzione vecchia e superata.
      Né vi ha posto rimedio una cultura riformatrice che suscitasse spirito costituente anche nell'elettorato che, confermando

 

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la validità della prima parte della Costituzione e dei princìpi fondanti, indicasse i punti salienti da riformare per rendere più efficace e viva la Costituzione del 1948.
      Sembra, quindi, che per raggiungere questo obiettivo, tenendo anche conto dell'ampiezza della riforma attuata attraverso l'utilizzazione impropria dell'articolo 138 della Costituzione, la strada maestra sia quella già indicata nella XIV legislatura con la proposta di legge costituzionale atto Camera n. 4289, presentata il 18 settembre 2003, per l'elezione di un'Assemblea costituente per la riforma della parte seconda della Costituzione. Non ci sfuggono le obiezioni. Ma esse ci sembrano sempre più fragili dinanzi agli eventi. La citata proposta di legge costituzionale riprendeva quella presentata il 15 aprile 1994 per iniziativa del deputato Gianfranco Rotondi che rifletteva una posizione diffusa tra i deputati democristiani.
      Si intendeva, infatti, fronteggiare l'offensiva referendaria che conduceva a risultati deludenti dopo le grandi speranze palingenetiche suscitate e nello stesso tempo affrontare in modo adeguato, con vasto coinvolgimento politico e popolare, le esigenze di revisione costituzionale che l'esperienza storica suggeriva.

      Il dibattito sulla riforma della parte seconda della Costituzione era stato in quegli anni particolarmente intenso e aveva dato vita a numerose Commissioni parlamentari, da quella presieduta dall'onorevole Bozzi a quella De Mita e quindi alla Commissione presieduta dall'onorevole Iotti. Alla fine del 1993 si era giunti quasi alla conclusione di una lunga e prudente elaborazione di un testo complessivo che naufragò per la troppo anticipata interruzione della legislatura in un clima di forti tensioni politiche.
      Maturò così all'interno di alcuni gruppi più consapevoli della Democrazia cristiana l'idea che occorreva accettare la sfida, che veniva soprattutto dalla destra del Movimento sociale italiano, di dare vita ad un'Assemblea costituente anche per sanare fratture politiche, non del tutto ricomposte, con un coinvolgimento di forze politiche escluse al momento della definizione della Carta costituzionale e di altre all'epoca emergenti, sostenitrici di un marcato federalismo con posizioni perfino anti unitarie.
      L'esito di questo dibattito fu appunto la proposta di legge costituzionale presentata, come iniziativa personale, dal deputato Rotondi, ma in realtà espressione di larghi consensi nella Democrazia cristiana, che nel frattempo assumeva il nome di Partito popolare italiano.
      La questione di un'Assemblea costituente si ripropose anche durante e dopo i lavori della Commissione parlamentare per le riforme istituzionali presieduta dall'onorevole Massimo D'Alema. Ma prevalse, dopo il fallimento della Commissione, soprattutto nei partiti della precedente maggioranza di governo, ancora una volta, la tesi della «pericolosità» di un'Assemblea che potesse minare i princìpi fondamentali della Carta costituzionale che costituiscono la base invalicabile del nostro sistema repubblicano.
      Si imboccò così la strada sbagliata di una riforma costituzionale rilevante come quella del federalismo con una scarsissima maggioranza, oggetto, oggi, a distanza appena di qualche anno, di ulteriori modifiche, facendo così perdere al dettato costituzionale la caratteristica di legge fondante. Quell'errore si è ora ripetuto con una maggioranza che ha percorso la medesima strada di una legislazione di parte, e senza che vi sia stato un vero e ampio dibattito nel Paese, con formulazioni costituzionali definite in un ambito ristretto, tra poche persone, enfaticamente definite «saggi».
      Dinanzi ai vari fallimenti delle diverse Commissioni parlamentari ci sembra quindi logico rompere gli indugi, sottrarre alla contingenza politica la riforma costituzionale e affrontare la complessiva tematica della parte seconda della Costituzione con una nuova Assemblea costituente che determini una vasta partecipazione degli italiani al processo riformatore.
      Non ci sembra che dal 1994, malgrado i forti e numerosi cambiamenti politici, siano però mutati i termini del problema. Riproponiamo così, senza significativi ritocchi,
 

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la proposta di legge costituzionale presentata in quell'anno dal deputato Rotondi soprattutto per riaprire il dibattito e per stimolare ogni ulteriore contributo.
      L'esigenza, dunque, di istituire un organo elettivo ad hoc - dotato di poteri costituenti - che proceda alla formulazione di un nuovo testo della parte seconda della Costituzione appare fondata su una molteplicità di ragioni, sia di ordine giuridico-sistematico, sia di carattere più specificamente politico.
      È anzitutto necessario premettere che la possibilità di ricorrere a tale fine allo strumento della revisione costituzionale previsto dall'articolo 138 della Costituzione appare oggettivamente preclusa dall'estensione stessa del processo di riforma. È infatti di tutta evidenza come la riformulazione della intera parte seconda della Carta costituzionale del 1948 implichi - tra l'altro - la definizione di una nuova forma di Stato (con particolare riguardo all'assetto dei rapporti tra poteri centrali e poteri locali e al quadro delle posizioni dei cittadini nei confronti dei pubblici poteri in genere) e di una nuova forma di governo (implicando il ripensamento complessivo della distribuzione del potere politico tra gli organi preposti al governo della cosa pubblica). Tale processo innovativo appare conseguentemente sfuggire alla portata istituzionale propria del già ricordato articolo 138, la cui concreta utilizzabilità - anche secondo l'avviso espresso da autorevoli studiosi - deve ritenersi limitata alle ipotesi di modifiche specifiche e ben individuate del tessuto normativo del testo costituzionale, tali comunque da non incidere sul complesso degli aspetti fondanti dell'ordinamento costituito.
      A tale scopo appare invece funzionale l'istituzione, mediante norme di rango costituzionale e dunque in grado di disporre legittimamente in deroga al disposto dell'articolo 138 della Costituzione, di un organo ad hoc, dotato di propri e specifici poteri costituenti, incaricato esclusivamente di provvedere, in tempi brevi, alla riforma della parte seconda della Costituzione del 1948 (rimanendo nel contempo operativi i poteri costituiti per l'esercizio delle proprie funzioni istituzionali) e destinato ad essere sciolto di diritto con l'esaurimento del proprio compito riformatore.
      Se dunque è questa la via che appare percorribile in vista della globale riconsiderazione del testo della Costituzione, ci appare per altro imprescindibile che alla concreta individuazione dei membri del consesso costituente si giunga attraverso il filtro di un sistema elettorale di carattere proporzionale, diverso cioè dal sistema attualmente vigente per la selezione della rappresentanza politica nazionale che si connota, come è noto, per la netta preponderanza del premio maggioritario. Se è infatti vero che carattere distintivo di quest'ultimo è quello di creare le condizioni per una maggiore stabilità delle compagini governative e, per tale via, per una più efficace attuazione dell'indirizzo politico delle forze politiche di maggioranza, non è per altro revocabile in dubbio che i sistemi non proporzionali conseguano tale risultato sacrificando (se pure parzialmente) l'esigenza di vedere rappresentate nelle istituzioni - nella loro effettiva consistenza - tutte le forze ed i movimenti politici che si siano organizzati nel Paese.
      È tuttavia di pari evidenza che, nell'ipotesi assai differente dell'istituzione di una Assemblea dotata di poteri costituenti, il cui compito precipuo sia la definizione di un nuovo assetto generale del «patto» tra governanti e governati, non è pensabile rinunciare, nella fase della selezione dei suoi componenti, al pieno concorso di tutte le istanze politiche, economiche e sociali presenti nel Paese. Ciò in particolare al fine di garantire che la nuova forma di Stato e la nuova forma di governo vengano determinate - sotto ogni profilo - nel segno del più alto concorso democratico, e dunque attraverso l'azione di un soggetto istituzionale che sia la proiezione più «fedele» possibile della composizione del tessuto sociale produttivo del Paese.
      Per quanto riguarda dunque il sistema elettorale da adottare in vista della costituzione dell'Assemblea, l'articolo 2 della
 

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presente proposta di legge costituzionale prevede l'applicazione del decreto legislativo luogotenenziale 10 marzo 1946, n. 74, che ha disciplinato le modalità per l'elezione dell'Assemblea costituente prevedendo l'attribuzione dei seggi tra liste concorrenti con il sistema dei quozienti interi e dei più alti resti (così optando per un sistema elettorale chiaramente proporzionale). In proposito, il medesimo articolo 2 attribuisce al Governo il compito di realizzare gli interventi normativi necessari, da un lato, per adeguare le norme del citato decreto luogotenenziale al numero dei membri dell'Assemblea ed alla rappresentanza minima prevista per ciascuna regione (in relazione, ad esempio, alla determinazione delle circoscrizioni elettorali); dall'altro, per coordinarne il disposto con le norme vigenti per l'elezione dei due rami del Parlamento nazionale, con particolare riguardo alle materie dell'elettorato attivo e passivo, del procedimento elettorale preparatorio e dello svolgimento delle operazioni di voto.
      Particolare rilievo assumono poi taluni profili connessi al procedimento previsto per la promulgazione e per l'entrata in vigore del testo di riforma costituzionale approvato dall'Assemblea a maggioranza assoluta dei propri membri.
      L'articolo 7 della presente proposta di legge costituzionale prevede infatti che il testo approvato sia sottoposto a referendum popolare entro tre mesi dalla data della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale. Tale referendum si caratterizza per la sua non riconducibilità agli affini istituti di democrazia diretta previsti nel nostro vigente sistema costituzionale, non esplicando infatti - come è evidente - effetti abrogativi, né rivestendo natura consultiva. Il contenuto proprio del referendum previsto dall'articolo 7 appare piuttosto caratterizzarsi quale approvazione, ovvero reiezione tout court, del testo deliberato dall'Assemblea, in ciò palesandosi semmai prossimo all'istituto previsto all'articolo 138, terzo comma, della Costituzione. Tuttavia, vale sottolineare come lo svolgimento di quest'ultimo sia disciplinato in termini meramente eventuali (essendo attivabile solo ove ne facciano specifica richiesta i soggetti previsti dalla norma medesima) e possa addirittura non avere luogo (ove le Assemblee parlamentari approvino il testo con la maggioranza dei due terzi dei componenti); il referendum di cui è invece prevista l'indizione ai sensi del citato articolo 7 è finalizzato ad accrescere il grado della qualità democratica sottostante alla riforma del sistema istituzionale contenuta nella «decisione costituente», dovendo ad esso procedersi comunque, a prescindere dalla presentazione di specifiche richieste in tale senso e senza che maggioranze comunque qualificate possano valere ad impedirne lo svolgimento.
      Sul punto della piena partecipazione popolare al processo costituente, appare infine assai significativo rimarcare la previsione della possibile presentazione di un testo di minoranza, diverso da quello approvato a maggioranza assoluta, da parte di un quarto dei membri del consesso costituente (e dunque da almeno trenta membri del medesimo). Ove ciò avvenga, è previsto che il referendum si effettui su entrambi i testi in alternativa tra loro, con la rilevante conseguenza del possibile sovvertimento delle determinazioni dell'Assemblea ad opera di un difforme avviso espresso direttamente dal corpo elettorale.
 

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